Onorevoli Colleghi! - Un'ormai antica querelle lasciata aperta dalla Carta costituzionale ci ha accompagnato per i lunghi decenni di vita democratica della nostra Repubblica fino a raggiungere i nostri giorni con eguale forza dirompente anche se con ulteriori e, se possibile, ancora più stringenti motivazioni. La querelle di cui si parla riguarda infatti i partiti politici e la loro mancata regolamentazione giuridica.
      Il dibattito intorno al ruolo e alle funzioni della forma-partito nell'ordinamento italiano si accese fin dagli albori della rinascita democratica del Paese, schierando da un lato coloro i quali, in dottrina e nella politica militante, vedevano nel partito di massa il nuovo vero protagonista della nascente democrazia e dall'altro le culture politiche (soprattutto di impianto liberale) che ne giustificavano l'azione solo in quanto mezzo per la promozione dei leader politici, esclusivi determinanti, secondo queste culture, della vita pubblica del Paese.
      La querelle non si risolse in sede di dibattito costituente: la Costituzione scelse di offrire rilevanza al pluralismo dei partiti politici, con un riconoscimento importante contenuto nell'articolo 49, che in qualche modo sanzionava, nella dimensione più solenne, il ruolo di egemonia assoluta assunto nella vita pubblica del Paese dal sistema dei nuovi partiti del CNL, in evidente soluzione di continuità con il sistema previgente al fascismo, laddove i moderni partiti di massa erano ancora allo stato nascente e le strutture politiche si reggevano sul notabilato del collegio uninominale.
      Ma l'importante riconoscimento concesso ai partiti si fermò sulla soglia di un formalismo che non intese ingerirsi negli «interna corporis» del nuovo protagonista della politica nazionale, neppure quando, stabilito come criterio regolatore della dialettica politica il «metodo democratico», accettò, con formula anodina, che tale statuizione potesse essere interpretata non

 

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solo dal lato esterno (metodo di lotta «tra» i partiti) ma anche dal lato interno (metodo di lotta «nei» partiti).
      I lunghi anni del proporzionale, dunque, videro realizzarsi il paradosso del ritaglio all'interno dell'ordinamento di una sorta di extraterritorialità in favore dei partiti politici e dei loro ordinamenti interni. La particolarità di quella situazione stava in questo: il più potente ed anzi l'esclusivo strumento di determinazione della vita pubblica, non solo in termini di partecipazione democratica, ma anche in termini di selezione della classe dirigente, di decisione degli assetti nelle più alte cariche dello Stato (la «lottizzazione»), di ingerenza in ogni interstizio della vita civile del Paese (non si dimentichi la stagione del panpartitismo onnivoro, abilitato a intervenire in ogni anfratto della vita del cittadino, dalla cultura, allo sport, all'organizzazione professionale e perfino alla sessualità), era, al cospetto dello Stato, «legibus solutus». Insomma, il cittadino avrebbe ricevuto una più ampia tutela giurisdizionale, in caso di pretesa violazione dei suoi diritti di socio, in una bocciofila piuttosto che in un partito politico. Dove l'eventuale contenzioso veniva devoluto alla giustizia interna dei «probiviri».
      Questa anomalia italiana aveva i suoi prodromi proprio nella cultura dei partiti costituenti e in particolare dei partiti marxisti che, immaginando di esporsi a indesiderati vulnus della propria autonomia da parte di Ministri dell'interno democristiani che avessero voluto brandire il grimaldello della verifica statuale degli statuti in chiave anticomunista, si opponevano a una pubblicizzazione del partito politico, trovando in verità, con il passare degli anni, ben poca opposizione da parte degli altri soggetti politici, sperimentatori delle larghe comodità di una condizione di extraterritorialità così ampia.
      Del resto un'analoga situazione si era verificata anche per i sindacati per i quali, addirittura, il Costituente aveva fatto esplicito obbligo di registrazione. Con l'avvento del finanziamento pubblico, tuttavia, quella condizione già anomala diventò subito stridente: come immaginare di non sottoporre ad alcuna verifica di funzionalità democratica, di rispetto dei diritti del socio e, teoricamente, anche dell'elettore, un partito che è anche destinatario del denaro pubblico? Anche in quella circostanza ci si accontentò di verifiche e riscontri solo contabili, sottolineando più gli interessi formalmente rivolti ai profili patrimoniali che le preoccupazioni per la tenuta della democrazia interna.
      Declinò la cosiddetta prima Repubblica e con il maggioritario prese corpo una nuova stagione politica. Non uno dei vecchi partiti costituenti sopravvisse a se stesso e si andò rapidamente a modificare la forma organizzativa e la stessa sostanza democratica di cui era impastato il partito. In luogo del partito ideologico, fortemente radicato sul territorio, con una larga base di militanti (circa 6 milioni erano gli iscritti ai partiti politici italiani negli anni ottanta, circa il 15 per cento dell'intero corpo elettorale!) e ordinamenti interni minutamente predisposti a consentire almeno la teorica espressione di una democrazia di base, si andò ad affermare il partito personale e post-ideologico, a forte caratura leaderistica, con poca struttura organizzativa, impianto statutario orientato verso il plebiscitarismo, pochissime garanzie formali all'iscritto, del tutto privo di militanza di base, aduso a ottenere strumenti mediatici per comunicare con l'elettorato piuttosto che con canali di democrazia interna.
      Questo stato di cose si è tradotto, nel periodo di vigenza del sistema maggioritario, nell'esaltazione di una ristretta oligarchia di partito che tende ad autoperpetuarsi anche attraverso il controllo delle candidature in occasione delle elezioni politiche e amministrative: il sapiente uso delle liste bloccate e l'amministrazione oculata delle candidature nei collegi uninominali, che è avvenuta, com'è noto, espungendo i militanti dal processo di selezione e chiedendo ai cittadini solo un voto «ideologico», di schieramento, hanno di fatto garantito a ristrette oligarchie l'affermazione di una nuova condizione della politica, definita efficacemente «partitocrazia senza partiti».
 

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      Né il nuovo sistema elettorale, introdotto alla vigilia delle consultazioni politiche dello scorso aprile, è servito a porre rimedio al grave vulnus di partecipazione democrativa derivante dal nuovo atteggiarsi della «forma-partito», vulnus che, anzi, si è acuito con l'adozione del sistema proporzionale «a liste bloccate». Il nuovo sistema, infatti, confisca ai cittadini il diritto di scegliere la propria rappresentanza, per consegnarlo alle oligarchie di partito chiamate, attraverso questo meccanismo, a una logica di autoconservazione.
      Infatti sono sopravvissuti tutti quei fenomeni che venivano un tempo definiti «degenerativi» del sistema dei partiti (compresa la «lottizzazione» che oggi si chiama più nobilmente «spoils system» e il fenomeno dei tesseramenti gonfiati), ma non c'è più neanche quel plausibile temperamento rappresentato dalla dialettica democratica garantita dalle correnti interne ai partiti. Oggi più ancora di ieri, allora, si rende necessario un intervento legislativo che offra garanzie di agibilità politica al cittadino che intenda partecipare alla vita democratica del Paese attraverso il partito politico, che continua ad essere, ancora più di ieri, il determinante principale, se non esclusivo, delle scelte politiche generali del Paese.
      Per queste ragioni, allora, riteniamo che la proposta di legge sottoposta alla vostra attenzione abbia oggi un valore ancora più importante che non in un recente passato.
      La proposta si snoda attraverso dieci articoli. Con l'articolo 1 è istituito il registro dei partiti politici presso la Corte costituzionale. L'articolo 2 regola le modalità del deposito dello statuto del partito e di eventuali regolamenti, facendone decorrere l'acquisizione della personalità giuridica da quel momento. Con l'articolo 3 vengono stabiliti i requisiti minimi che devono essere contenuti nello statuto. Con gli articoli 4 e 5 si stabiliscono i princìpi di tutela delle minoranze e le modalità di svolgimento delle votazioni interne e delle assise congressuali. L'articolo 6 regola la pubblicità degli atti interni di partito, mentre l'articolo 7 stabilisce le procedure di garanzia per la selezione delle candidature in occasione delle elezioni politiche e amministrative. L'articolo 8 pone i princìpi regolativi degli organi giurisdizionali interni. Con l'articolo 9 si stabiliscono princìpi di tutela dell'iscritto che adisca la magistratura ordinaria per far valere i suoi diritti di socio e si dispongono sanzioni per l'omesso deposito degli statuti, condizionando alla regolarità delle procedure di iscrizione al registro la concessione di eventuali contributi pubblici. Con l'articolo 10, infine, viene stabilita la nominatività dei titoli appartenenti al partito.
 

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